martedì 21 dicembre 2010

futuro

con il contributo di W.B.

Oggi esaminiamo una canzone, una canzone le cui parole sono più famose della musica.
Si tratta di “Futuro”, interpretata da Orietta Berti e scritta da Umberto Balsamo e da Luciano Raggi, presentata al festival di Sanremo del 1986 (ove si piazzò onorevolmente al sesto posto, dietro a mostri sacri come Toto Cutugno e Marcella e davanti a nomi del calibro di Scialpi, Mango, Fred Buongusto, Righeira e perfino un giovanissimo Zucchero).
La musica (l’armonia, per la precisione) copia vergognosamente un grande successo del 1984 di Gianna Nannini, “Fotoromanza”. Ma di essa, oggi, non ci occuperemo.
Il testo è invero assai complesso e a tratti davvero criptico, esoterico. Alla lettura, nella sua integrità, si rivela prestamente quale inno doloroso, vago del passato, scorato dal presente, timorosissimo del (appunto) futuro. Tentiamo ad ogni modo una analisi.


Il giornale che ci tortura

Un incipit forte. Una dichiarazione d’intenti, concettosa e aspra, che va puntualmente sezionata.
In primo luogo, l’articolo, determinativo, a indicare la classe. Non è un giornale a torturare, ma tutti i giornali, indiscriminatamente. Va scartata da subito (non foss’altro che per l’uso della minuscola) l’ipotesi di un riferimento al “Giornale Nuovo”, all’epoca una delle testate più lette del Paese.
Il sostantivo. Trattasi dunque della carta stampata. Ma è la notizia a torturare, o il mezzo di veicolazione? Qui il primo, importante dubbio. Sì, perché se a tutta prima potrebbe sembrare (l’esegeta avvertito sa che l’Autore, ne avremo prova tra poco, conosce le figure retoriche) che siano i semplici fatti raccontati sui giornali a provocare patimento, non erra l’interprete che individua proprio “nel giornale”, col suo modo di “fare notizia”, la vera cagione dell’ingiusta punizione.
E qui, lo storico ha un primo sussulto. Siamo alla fine del 1985 (il pezzo, preparato per il festival che si celebrò dal 13 al 15 febbraio del 1986, fu certamente scritto, per essere presentato alla direzione artistica, in ossequio al regolamento, almeno qualche mese prima). Siamo nella famosa “era Gorbaciov”. Il nuovo presidente del PCUS appena due settimane dopo il festival parlerà al XXVII Congresso e darà il via alla glasnost e alla perestrojka. Il disgelo USA-URSS. Perché tanto terrore, tanto dolore? All’orizzonte si intravede un’epoca felice, il disarmo, la fine della guerra fredda. Di lì a pochi mesi Reagan e Gorbaciov si incontreranno per dare vita ad importanti accordi per la riduzione degli armamenti. E invece, la tortura.
Il pronome relativo. Incappa l’autore in un primo, ancorché veniale, errore sintattico. Sì, perché quel “che” appare ahinoi, alla lettura del secondo verso, al quale è necessariamente e logicamente congiunto, un mero strumento metrico; mancava, in altre parole, una sillaba per finire il verso. Altrimenti si perderebbe tutta l’importanza del Sudafrica, di cui in appresso, che non può certo essere considerato un semplice quadrisillabo.
Il pronome personale. La forma atona della quarta persona (il famoso “ci”), dà per scontato, senza discussione, e tradendo un pizzico di superbia, che la tortura del giornale è tale per tutti noi. E’ un fatto che ci riguarda tutti. Una tortura mediatica indifferenziata.
E quindi il verbo. Un tormento universale; un supplizio, cui non possiamo sottrarci. Non possiamo sfuggire al giornale e ai suoi malefici, ci tocca subire, ci tocca patire. E’ il giornale che ci tortura, la tortura, appunto quotidiana, immancabile, ineluttabile, come il sole che sorge ogni mattina.

il Sudafrica fa paura

Questo è un passo che sempre ha creato grossi problemi all’esegeta.
Lo storico, di nuovo, e con lui il sociologo, forse, sono chiamati a interrogarsi. Perché il Sudafrica? E, di nuovo, perché tanta paura? Certo, l’apartheid, e il caso Mandela. Ma la paura, perché? E di che cosa? Paura di un’epidemia di razzismo galoppante? Paura di un Sudafrica bellicoso e sfrenato, senza limiti né leggi? O forse, per altro verso, paura di un’invasione del Negro? Il dubbio, lacerante, resta.

mentre il giorno diventa sera
in casa mia


Si tratta evidentemente di una metafora, visto il riferimento alla casa, altrimenti inutile. Il giorno, sappiamo, diventa sera un po’ ovunque. La casa è quindi l’animus, il sentire interiore. La casa (l’alma) imbrunisce, si oscura, e con le tenebre i lugubri presagi, i dubbi, le paure, trovano campo, prendono, come si dice, piede; nel buio, col buio, prendono vita i pensieri più cupi (il Sudafrica, appunto, il giornale); e quindi il mondo che si fa brutto, pericoloso, spaventoso, turba lo spirito di chi leva il suo canto, canto purtroppo rotto da questa insanabile inquietudine.
Si chiude con questa icastica, ardita allegoria, la prima strofa del brano. In queste poche righe c’è già tutto. Poche parole, ma immagini e questioni amplissime.
Proseguiamo. Ci attendono molte onde da solcare.

E i ragazzi son sempre quelli
che si sentono forti e belli


Un primo problema lo dà il pronome. Non è dato comprendere se, di nuovo, il “che” sia stato piazzato solo per esigenze di metro, oppure se sono da considerarsi ragazzi solo coloro che sempre si sentono forti e belli. Questa interpretazione salva la forma grammaticale, ma a discapito tuttavia, a nostro avviso, del senso. Più verosimilmente l’Autore intese dire che i ragazzi si sentono sempre forti e belli (originale, in ogni caso, l’endiadi) in quanto ragazzi; ma in questo caso, quel povero “che” lascia non poco amareggiato l’esegeta.
Un secondo problema si pone sulla questione del “forti e belli”. In primo luogo, non è vero che i ragazzi si sentono tali. I ragazzi (certo non tutti, ma molti) si sentono anche sfigati, insicuri, maldestri, bruttini, ciccioni, brufolosi, inadeguati, eccetera. Dare per scontato è un errore che il Nostro Autore commette più di una volta. In secondo luogo c’è il “sempre quelli”, che sembra proprio una sentenza da ottuagenario, l’occhio stanco che vede la giovinezza lontana e tutto un po’ uguale. Insomma, un mezzo pasticcio.

in un mondo che cambieranno
e andranno via.


Ecco, qui siamo di fronte a quello che si chiama super-anacoluto. Oppure, tragico errore sintattico, se si preferisce. La congiunzione è davvero assassina.
Dunque i ragazzi cambieranno il mondo e, dopo averlo fatto, andranno via.
I ragazzi si sentono forti e belli; cambiano, sentendosi tali, il mondo, e poi lo lasciano lì.
Si fatica a cogliere appieno il senso di questa strofa: andranno via in quanto, come tutti, se li porterà via la Nera Signora? Andranno via in quanto si saranno stufati del mondo che hanno purtuttavia contribuito a cambiare? Andranno via in quanto non c’è altro da fare, una volta compiuta la metamorfosi dell’orbe? Andranno via allora in quanto il destino li chiama ad altre imprese, forti e belli come sono? Perché, perché vanno via, questi nostri fiorenti virgulti? Cosa li chiama? Cosa li spinge? Sono forse, i nostri rigogliosi palmizi, giovani eroi classici che sprezzano le Moire? Sono forse essi biondi muscolosi salmoni che, guidati da istinti primordiali, vincono la corrente per poi lasciarsi allontanare, esausti, verso alvei sconosciuti?

Ma c'è un re con un gran cavallo
che decide quando si balla
e la storia che si ripete è sempre quella.


Ecco presentarsi il serissimo problema della congiunzione avversativa. Nei passi che precedono, lo scenario descritto è assai negativo, financo distruttivo; ci si attenderebbe, dunque, una ‘svolta’ in positivo (iusta la congiunzione), dunque questo ‘re’ che, quale deus ex machina, cambierà la situazione in meglio. E invece no: non solo il re non cambia proprio niente in meglio, ma sarà evidente in prosieguo che si tratta di una figura del tutto negativa, e rende la situazione se possibile ancor deteriore.
Meglio sarebbe stato, allora, dar la stura alla frase-chiave della canzone, perché questa è effettivamente la frase-chiave della canzone, con una congiunzione semplice (‘e c’è un re…”), eppure ricca di significati.
Cionondimeno, noi esegeti, prima di arrenderci alla critica e alla condanna, partiamo dal presupposto che i parolieri di Orietta Berti sapessero molto bene quel che scrivevano. Andremo alla caccia, dunque, di una interpretazione che garantisca un senso preciso alla congiunzione avversativa.
Ma, prima, occorre entrare a spada sguainata nel mistero, e, per così dire, scardinarlo.
Le scuole di pensiero, sul difficoltoso trinomio “re-cavallo-ballare”, sono almeno cinque.
Vediamole nel dettaglio.
1. Sgombriamo subito il campo dalla teoria più strampalata, la cosiddetta ‘teoria collegazionista’. Secondo alcuni il “cavallo” sarebbe il cantautore pugliese Domenico (detto Mimmo) Cavallo, ben noto per il brano “Siamo meridionali” (1980); nel 1982 il Cavallo pubblicò, per Fonit Cetra, “Stancami, stancami musica”; in seguito, evidentemente e in effetti stancato dalla musica, non pubblicò nulla per vari anni. Secondo la scuola di pensiero che qui ci occupa, Orietta Berti, proprio per incitare l’amico Mimmo a non desistere, avrebbe inserito un messaggio criptico e criptato in “Futuro”, indirizzato proprio a lui, ma non solo; il ‘re’ sarebbe ovviamente Pippo Baudo, e Mimmo sarebbe definito ‘gran’, quale incitamento a puntare decisamente sulla figura del cantautore di Lizzano (TA). Secondo tali fantasiosi esegeti, Mimmo C., uscito dalla depressione compositivo-artistica, avrebbe addirittura risposto, a tale messaggio criptico di Orietta, tre anni dopo, nel 1989, pubblicando, quale occulta forma di ringraziamento, ‘Voglio un futuro possibile’ In sostanza Pippo Baudo, (re del Festival), avrebbe avuto la possibilità di decidere di farci ballare, con un “gran cavallo” su cui ‘puntare’. Non risulta, tuttavia, che lo showman della piana etnea abbia mai avallato tale articolata interpretazione. Peraltro, non crediamo che Orietta Berti abbia voluto inserire un interesse personalistico in un’ode orientata al futuro dell’intero pianeta. Non è chi non veda, tuttavia, come tale interpretazione sia abbastanza in linea con il concetto della danza (seppur il genere musicale di Mimmo Cavallo non sia propriamente ballabile).
2. Un’altra teoria, c.d. “mitologica” è sostanzialmente tripartita. Ben tre infatti sono i re muniti di gran cavallo che di volta hanno incrociato le simpatie dei parrucconi: Una prima vedrebbe nel “re” il mitico Ulisse (re di Itaca), e nel gran cavallo il cavallo di Troia, il quale, in effetti, era assai grande, tanto da contenere al suo interno svariati soldati. A favore di tale interpretazione militano il tema guerresco e l’attributo del ligneo equino (‘gran’). Non consono a tale interpretazione sembra invece il carattere ballerino del re (non consta agli storici che Ulisse amasse particolarmente ballare, anzi egli era riflessivo, prudente e schivo). Per una seconda scuola il ‘re della danza’, secondo alcuni, potrebbe essere Nataraja, ossia Shiva, che ha effettivamente, tra gli altri, anche tale epiteto; tuttavia non si ha alcuna notizia di Shiva a cavallo, no si suppone che abbia mai avuto a che fare con cavalli. L’iconografia sul punto è estremamente chiara. La terza infine è la notissima scuola francese, la quale identifica nel ‘re’ Alessandro il Grande (re di Macedonia), e nel gran cavallo il leggendario Bucefalo (il cui nome - ‘testa di bue’ - richiama infatti la maestosità del quadrupede). Tale interpretazione ha anche il pregio di essere coerente con l’estrazione, diciamo, culturale di Orietta. A Cavriago, luogo di nascita della cantante, come del resto in tutta l’Emilia, il gioco delle carte è molto diffuso. Nelle tradizioni anglosassone e francese il re di fiori corrisponderebbe proprio ad Alessandro Magno. Secondo gli storici (cfr. in particolare Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti, o Sofisti a banchetto, 10.45 434F e 435a), Alessandro Magno amava molto i banchetti e le danze sfrenate, alle volte orgiastiche, che li accompagnavano. Era lui a decidere quando si sarebbe iniziato il ballo.
Sarebbe dunque disvelato l’arcano: Alessandro Magno è senza dubbio “il re con un gran cavallo che decide quando si balla”.
Ma perché collocare, in un contesto così attuale, una figura storica?
E poi, come può decidere oggi, un Alessandro, dei destini del mondo?
3. L’interpretazione cosiddetta ‘scacchistica’ (nata dal connubio logico “re-cavallo”) trascura completamente l’elemento “danza”. L’unico momento in cui i pezzi possono in ipotesi “ballare” è in viaggio (es.: sul treno), su di una scacchiera mal ancorata, ma in tal caso è la forza d’inerzia che decide quando si balla, non certamente il re, pezzo, peraltro, piuttosto debole e insicuro.
4. L’interpretazione politica. Forse quella più in linea col tenore complessivo del testo. Ebbene, re con cavallo non può, per evidenti motivi, essere un presidente russo o americano, visto che di essi il pezzo si preoccuperà, come vedremo, tra poco. Un altro “re del mondo”, forse di guénoniana memoria, dunque? E chi può essere? Un re più forte e più potente di tutte le potenze, un monarca invisibile che muove i destini del mondo e decide chi farà che cosa. Non può essere, naturalmente, Domineddio, non solo per il fatto che non va a cavallo (immagine peraltro ad un tempo ardimentosa e buffa), quanto soprattutto perché, anche per un rimando allo stesso re, al quale gliene vengono cantate quattro, tra non molto, la frase avrebbe tutto il sapore di una bestemmia.
5. Secondo noi, così, a naso, potrebbe trattarsi di Gheddafi.


A voi russi o americani
io non delego il suo domani
su mio figlio non metterete le vostre mani


Siamo al passo più celebre del pezzo. Il fulcro, il clou.
Il famosissimo j’accuse alle due - venivano chiamate così - superpotenze mondiali (un termine fumettistico molto in voga a quel tempo). C’è, prima di entrare in medias res, da rilevare un altro grave errore sintattico, quell’aggettivo possessivo che solo troppo tardi, purtroppo, scopriamo a chi è riferito.
Orbene, “russi o americani” per l’Autore pari sono. Fanno schifo entrambi, diciamo. L’Autore è confidenziale, usa la seconda persona. La sineddoche (“domani” per “futuro”) è potente. Ma tutto il senso è retto, evidentemente, dal “delego”. Non possiamo permetterci di lasciare i nostri figli (come vedremo tra poco) nelle mani di russi o americani. Quelli sono brutta gente, hanno i missili. Delegare, delegare “il domani”. Il genitore prova preoccupazione per il domani del figliolo. All’orizzonte, armate rosse o a stelle e strisce muovono per ottenebrare il nostro futuro. Ma è il delegare, il problema. Normalmente il genitore delega il futuro dei figli a russi o americani? E’ dunque una scelta rivoluzionaria del Nostro Autore quella di sottrarsi alla macchina di delegazione per formulare un gigantesco, tonitruante NO a questa barbarie? La macchina russoamericana che schiaccia, conculca i nostri figli, le loro aspirazioni, le loro ambizioni…ma, un momento, non erano loro, i ragazzi, a cambiare il mondo? Sgomento.

Voglio ancora una vita e un aquilone,
voglio ancora due sassi da buttare,


Ci siamo. L’abbiamo aspettata, e adesso è arrivata. Siamo alla pars construens. Dopo il grido di dolore, parte, con forte e significativa soluzione di continuità, la voce, impetuosa, del desiderio. Io non ci sto a questo gioco al massacro, io “voglio”. Voglio che cosa? Una vita e un aquilone. L’aquilone ci sta tutto: è il cielo, la libertà, il volo, la lontananza dalle cose terrene, il fluttuare spinto solo dai refoli, dall’arbitrio sbarazzino e imprevedibile del vento. Accanto all’aquilone, la vita. Un po’ troppo, forse. Poteva andare bene, che so, una barca, una tenda, una cialda, una pinta. La “vita” spezza l’incantesimo simbolico.
Due sassi da buttare. Il numerale è enigmatico e il verbo è misterioso. Due sassi sa molto di metafora, come a dire due passi, due minuti, due chiacchiere, due colpi, due tiri. Tre sassi non andava bene. Sei sassi (per salvare il metro) sarebbe parso magniloquente. E’ un due stanco, in definitiva, poco prensile. Forse l’ideale sarebbe stato un “dei”, sospendente ma significativo. Poi, i sassi non si buttano. Si scagliano, si gettano, si lanciano, si tirano. La spazzatura si butta. I sassi da buttare sembrano pesi morti di cui liberarsi, ma siamo certi che non è questo che il Nostro intendeva. I versi, pur nella loro difficoltà, farebbero pensare infatti al bimbo, con la sua brava cordicella in mano, ignaro dei russi, che gioca felice sulla riva e che fa saltellare i sassetti a pelo d’acqua, saltellando a sua volta. Tuttavia, di nuovo il dubbio assale, aprendo vasti squarci all’interpretazione nascosta.
A risolvere, secondo alcuni, c’è l’avverbio. Quell’ancora, che sembrerebbe non lasciare spazio a incertezze. Il desiderio è tornare indietro, riprovare l’emozione di bambino, quando la folata improvvisa sposta, eleva, abbatte, e l’aquilone cabra, s’impenna, scende, s’innalza, atterra, si riprende, muore, poi rivive, poi scompare, poi torna, poi non c’è, poi c’è, eccolo, è là, lassù, in alto, in alto! L’occhio si fa tumido e grave di lacrime. E’ nostalgia.

dire sì, dire no, dire amore
e insegnarti che tu puoi volare.


Trovare una connessione logica tra i due versi è impresa complicata. Dopo lunga ponderazione, concludiamo trattarsi del cuore di mamma. Che a volte dice sì, a volte no (i famosi “no che aiutano a crescere”), a volte, giustamente, amore. A volte ti sgrido - quando te lo meriti, figlio mio - a volte ti coccolo, a volte ti insegno a vivere, a librarti nel cielo.
O forse, malignando, ti insegno a volare fuori dalla finestra quando ne ho le palle piene.


Devi fare la guerra dei bottoni,
devi avere la forza di cantare,

Aaah. La guerra dei bottoni. La guerra innocua, bella, pulita. Le cacchette di fango, le figurine, le palline di carta masticata sparate con la bic, la fionda, la pistola ad acqua, le biglie, le macchinine, le palle di neve. Le emozionanti immagini della nostra argentina gioventù. Bisogna tornare indietro e… trovare la forza di cantare. Sì, perché il grigio, se non il nero, ha ammorbato, affumicato, occluso i nostri alveoli. I nostri polmoni sono mortificati, non hanno più capacità nemmeno per respirare, e la gola non può più trovare la forza per cantare. Eppure, bisogna farlo. E sarà proprio la guerra dei bottoni a farci tornare bambini, e a restituirci le energie per sbraitare a tutta strozza i nostri alti lai.
Il problema lo dà il verbo. Ma come? Ci mettiamo a dare ordini, così, all'improvviso? La risposta è nel contesto e la si trova confrontando le righe che precedono con quelle che seguono, e che descrivono, con sublime perfezione, l'incostanza degli stati d'animo di una madre angustiata. Il figliolo che vola, ma che deve combattere!, il figliolo che cresce, ma che deve cantare!, il figliolo che dorme, ma che deve lottare.


figlio mio, neanche Dio può capire
quanto è bello guardarti dormire.


In effetti una sottile inclinazione alla blasfemia l’avevamo percepita. Ma qui si esagera. Pensare che nemmeno l’Onnipotente possa capire, beh, sembra un po’ grossa. In ogni caso, qui è mammà, si capisce, che mentre osserva il fanciullo che dorme, prova ad ammannirgli nel sonno gravi e preoccupati sermoni. Un duo di versi dal sapore posticcio, malfermi, incomodi.


Oggi è tempo di stare attenti
e non parlo dei delinquenti,


Due versi per riempire, perfettamente ultronei. Che sia tempo di stare attenti è fuor di dubbio, vista la lacerante situazione del Sudafrica, a tacer di Russi e Americani. E non dimentichiamo il giornale, con la sua tortura. Inutile ripetersi, inutile soprattutto specificare che non sono i delinquenti quelli da cui bisogna guardarsi. C’è ben altro, per l’appunto.


questa volta non c'è Pilato,
è andato via.


Pilato è andato via. Stavolta non possiamo “lavarcene le mani”. Dobbiamo decidere, decidere del nostro futuro, e in fretta. Non si capisce tuttavia, a voler andare in profondità, perché si senta il bisogno di dire che Pilato se n’è andato via. Pilato, verosimilmente, è morto un paio di migliaia di anni fa, o giù di lì. Quindi trattasi di metafora. E sin qui. Ma perché “andato via”? Dov’è andato, Pilato? Potevano dirci, guardate qui non è più tempo di pilati o roba simile, è ora di rimboccarsi le maniche, non possiamo più stare a guardare, accettare passivamente lo sfascio, il degrado.
Un motivo c’è sempre. Leggete bene il testo. Questa volta non c’è Pilato. Pilato è andato via, Pilato, questa volta, ci ha lasciati soli. Pilato, il capro espiatorio, Pilato, colui che sussume su di sé la responsabilità del grande gesto, Pilato marchiato dalla storia come il più vile tra i vili, il più ignavo tra gli ignavi, trova qui una rivincita. In realtà è lui che, con il suo non liquet, si fa carico delle responsabilità, è lui il muro contro il quale scagliamo i nostri dardi e i nostri strali, noi comodamente accucciati sul divano a giudicare e condannare, o assolvere. E lui a far da catalizzatore, da parafulmine. Abbiamo bisogno di un Pilato per sentirci migliori, noi lo vogliamo, un Pilato da additare. Ma stavolta, eh stavolta cari miei, non ce n’è. Pilato è andato via. Dovete cavarvela da soli. E’ al bar, Pilato, è al cinema. Adesso tocca a noi, a voi. Scendiamo dal divano e mettiamoci al lavoro.

Siamo tutti un po' responsabili
se la vita sarà impossibile,
non c'è un alibi che tenga alla follia.


Infatti, siamo tutti responsabili per quello che accadrà se non ci diamo una mossa. Il mondo sta impazzendo e noi abbiamo il dovere di fare qualcosa. Poi, inatteso, uno iato logico, o, più precisamente, forse, una cattiva scrittura. Cosa c’entra l’alibi che tenga alla follia. Roba da spaccarcisi la testa. Sì, perché l’alibi si riferisce a colui che è folle, per il quale non c’è alibi, essendo folle. Ma qui l’autore vuole dire, se non erro, che noi non possiamo invocare alibi quando ci troviamo di fronte alla follia. Ovvero che è nostro preciso dovere intervenire per rintuzzare i folli assalti di re, cavalli, russi, americani, giornali, sudafricani e via discorrendo. Avrebbe dovuto scrivere non c’è alibi di fronte alla follia. O forse mi sto sbagliando io, chi sa.

E a quel re con un gran cavallo
dico io quando si balla
e la storia che si ripete non sarà quella.


Allacciare le cinture perché qui si va forte. Siamo sullo schuss finale. Adesso non si scherza: al re parlo io, gliele canto di santa ragione. Che scendesse da cavallo e la piantasse di dare ordini. Puoi anche avere un gran cavallo, caro re, ma da domani cambia la musica, e a menare le danze ci penso io. Io cambio disco, chiamo la pista, remo la barca, guido la moto, cambio la Storia.

all in it

annientato il bozambo!

venerdì 17 dicembre 2010

Il pringipe degl'imprenditori

Io ho simpatia per l’intrapresa.
Provo un moto di istintiva ammirazione per chi crede in un progetto imprenditoriale: una manifattura, magari calzaturiera, un piccolo esercizio commerciale. Considero chi rischia su un’idea, ci mette il sudore, il sangue, il fegato, va in banca e garantisce il mutuo con la sua casa o con quella di suo padre, ci mette le notti insonni, i patemi, le lacrime, i pentimenti, le liti con la moglie, i fornitori che fanno impazzire, gli avvocati, i clienti, la contabilità, il saldo di cassa, le rate a fine mese.
Ho simpatia per costui.
E ancora più simpatia, quasi tenerezza, provo per colui la cui idea è perdente, sbagliata alla radice, ictu oculi irrealizzabile.
Sì, perché alla fine, l’imprenditore di successo risulta antipatico. A me, almeno.
O meglio, mi risulta antipatico un certo tipo di imprenditore di successo italiano. Quello che appena gli gira bene comincia a comprarsi la Audi, il Suv, si circonda di orpelli, mignotte, frequenta i locali, stringe relazioni ambigue, veste tendenza, diventa sicuro di sé, viaggia, pretende, alza la vocina, disprezza, giudica, prende la multa, ostenta, mescola condiscendenza e arroganza.
Il mio imprenditore di successo è un uomo ignorante, stanco, amante della tavola coniugale, dimesso, umile, attento, gentile, casa e lavoro.
Per uno di quelli che riescono ce n’è sempre almeno uno che non riesce.
E di quelli che non riescono, anche qui, troviamo due categorie.
La prima antipatica, la seconda simpatica.
Il fallito antipatico è quello che non gliene frega un cazzo di fallire. Quello simpatico è quello che soffre.
Ma torno al punto. Il mio imprenditore preferito è quello che coltiva un’idea assurda. Ma non assurda alla Tucker, dico assurda assurda.
Per esempio, adesso parlerò di un’impresa le cui attività mi sono tornate alla mente proprio ieri, o l’altro ieri, durante una conversazione.
Io non so nulla di quest’impresa, di chi l’ha creata, di chi l’ha esercitata. Non conosco le sue sorti, i suoi andamenti.
Conosco alcuni fatti.
In primo luogo il nome: Pryngeps. Con la y. Con la g.
E già qui, sappiamo molte cose.
In secondo luogo so che detta ditta ha fatto (e credo pagato) pubblicità ai suoi prodotti su alcune reti private lombarde, per anni. Tanti anni.
In terzo luogo, non ho mai conosciuto nessuno che abbia indossato uno dei prodotti di questa ditta. Si tratta, è ora di dirlo, di una marca di orologi.
(Ho conosciuto, per la verità, uno che ha comprato uno di questi prodotti e l’ha regalato alla fidanzata. E quando ella aprì la confezione, ammirai smisuratamente la mia fidanzata dell’epoca che, nell’imbarazzo in cui ero precipitato alla vista dell’oggetto – eravamo lì tutti e quattro – seppe trovare le parole giuste)
In quarto luogo, il prodotto-simbolo dell’intrapresa.

questo.





Ecco, per me, uno che gli viene in mente di fare una roba così, a me mi è simpatico.