domenica 23 febbraio 2014

frammenti di un discorso ospedaliero

uno

sdraiato sul mio letto guardo fuori. piove, piove orribilmente da giorni e mi dicono che, fuori, fa freddo. tutto sommato, mi dicono scherzando, stai meglio qui.
sono al quinto piano.
quando mi capita, guardo le persone che camminano sotto di me, che entrano o escono dall'ospedale. mi piace molto guardare le persone che camminano intorno all'ospedale e che non sono ospiti dell'ospedale.
il mio letto è bellissimo. lo ha costruito una filiale italiana di una società americana. sul letto c'è il marchio: hill-rom. sono andato sull'internet e ho assunto informazioni sulle attività e i prodotti della società.
appena ti ricoverano impari a manovrare il tuo letto. è una cosa che ti serve da subito. oltre a poter alzarlo o abbassarlo, puoi operare su ciascuno dei tre segmenti che lo compongono. testa alta, piedi bassi, piedi in alto, testa in basso, pancia in dentro, pancia in fuori, e così via.
adesso dico come ci sono arrivato.

sono in un albergo a mazara del vallo, un paese brutto, bruttissimo. mio figlio ha preso parte a una gara di scherma. adesso dorme. io sono al cesso e fumo una sigaretta. nel cesso non c'è il rilevatore. l'albergo ha 4 stelle ma ne merita meno. almeno si mangia bene. questo pomeriggio sono andato con mio figlio nella zona benessere. ci siamo divertiti un sacco. sauna, piscinetta con idromassaggio, doccia "emozionale", colorata e profumata, e tisana inclusa.
mi sveglio nel cuore della notte con una febbre terribile.
è domenica. la febbre mi abbatte. sto male come non sono mai stato in vita mia. convinto dalla mamma di mio figlio, vado alla guardia medica. la dottoressa mi prescrive un antibiotico. alle 20.30 parte il mio volo per milano. è la prima volta che volo da ammalato e mi sento una specie di untore, sai mai che fosse una cosa contagiosa. per la prima volta da quando prendo aerei, cioè da 25 anni, devo stare 15 minuti fermo sulla scaletta posteriore prima di riuscire a imbarcarmi. c'è qualche passeggero che evidentemente fa molta fatica a sedersi. i passeggeri mi stupiscono sempre. c'è sempre qualcuno che ha il posto alla fila 30 e sale dal davanti, e viceversa. c'è sempre qualcuno che al gate si mette in pole position per l'imbarco, indipendentemente dal fatto che ci sia il finger. prendo una certa dose di freddo.

a malpensa c'è mio padre, che gentilmente è venuto a raccogliere i miei resti e a trasferirli a casa mia. in realtà insiste perché vada a casa sua, così lui e mamma possono occuparsi di me. rifiuto finché non si arrende.
la notte è pesante. la tachipirina più di tanto non fa. lunedì febbre, martedì febbre. mercoledì febbre, ma più bassa. risolvo di andare in tribunale, ho due udienze cui devo presenziare. dopo aver presenziato, so che avrei potuto mandare una scimmia e sarebbe stata la stessa cosa. torno a casa. la febbre sale.

la notte è la peggiore delle precedenti. perdo completamente il senso del tempo. la mia mente è nelle mani di qualcos'altro, una forza oscura, imbattibile. penso incessantemente, per ore, ma poi mi rendo conto che non sto pensando niente e dico a voce alta "pensieri di niente" come se la forza oscura della febbre a quel punto dovesse aver capito di aver vinto e lasciarmi in pace. come se avessi pronunziato la resa. sono annichilato. sono percorso da brividi di ghiaccio. le ossa sono paralizzate, i muscoli non esistono. ho dolori per tutto il corpo, anche se non mi muovo. appena prendo sonno, mi sveglio. così, per ore. alle 6 del mattino mi alzo dal letto, vado sul divano. aspetto che si facciano almeno le otto, le nove, per chiamare il mio amico medico. accendo la tv su canale 5 perché c'è l'orologio. il tempo si dilata spaventosamente. vivo il più classico dei quadri surrealisti. ogni minuto mi addormento e mi risveglio. ogni minuto che mi risveglio, cioè ogni minuto, sono convinto che ne siano trascorsi 10, 20. è sempre uno. un minuto. chiudo, apro gli occhi. un minuto.
alle nove chiamo. il mio amico mi dice vieni in ospedale che ti faccio fare una lastra.
che cosa fare? andare in ospedale, che è dall'altra parte di milano, uscire di casa in questo stato, guidare la macchina?

vado. alle 10 sono in pronto soccorso. per fortuna non c'è molto movimento. mi misurano la febbre. è 39 e qualcosa. flebo di antipiretico. prelievi, lastra. mentre aspetto l'esito della lastra, seduto sulla sedia a rotelle, mi accorgo che sto perdendo conoscenza. faccio in tempo a pensare che non corro rischi, visto che sono seduto. mi risveglio con un dolore forte alla cima del naso, dolore sempre più forte, sempre più forte. un infermiere sta premendo del cotone contro il mio naso. sono caduto con la faccia in avanti, scopro, e gli occhiali mi hanno ferito. niente di che. scopro l'ebbrezza del prelievo nell'arteria radiale.
l'internista guarda i risultati. polmonite. ricovero obbligatorio. si cerca un posto. in pneumologia non ce n'è. trovano un posto in gastroenterologia.

i miei compagni di stanza sono due vecchi e un ragazzo. il primo vecchio è un milanesone, pieno di fissazioni. è ricoverato da un mese, ma non si sa che problemi abbia. la sera abbassa tutte le tapparelle. il secondo vecchio è un siciliano, di regalbuto. la notte è rumoroso. il ragazzo, un bel ragazzo, è l'oggetto palese del desiderio di tutte le infermiere e di un infermiere maschio, il quale gli dice "prima di uscire devi sganciare il numero del cellulare, anche solo per un'amicizia". prima della fine del turno, le apprendiste infermiere vanno da lui a chiedere se ha bisogno di qualcosa. finalmente l'infermiere maschio riesce a ottenere il numero e subito si mette a mandargli messaggi. il ragazzo ritiene di condividerne il contenuto con le infermiere.

dopo 3 giorni si libera un letto in pneumologia. vi rimarrò 13 giorni, per un totale di 16 giorni di ricovero.
per i primi 5 giorni i miei compagni di stanza saranno: agostino, settantaduenne ergastolano di origini messinesi ma romano d'adozione e di lingua, piantonato 24 ore su 24; piero, milanesone e chiacchierone, e ciro, napoletano bonario ma insopportabilmente molesto. dimessi ago e ciro arriveranno mauro, quasi mio coetaneo, e un ottantaduenne antipatico e volgare; poi anche piero sarà rimpiazzato, da un ragazzo disabile, che non parla e non sa.

la contiguità coatta sviluppa forme diverse di umanità. in ospedale, è noto, la condivisione del dolore, che è reale, avvicina le persone. mauro ha chiamato le infermiere quando il ragazzo senza nome si è sporcato tutto col suo catarro. e quando mauro è tornato con due sacchetti attaccati via cavo al suo organo genitale sono stato male. mauro aveva un'edicola davanti al cimitero maggiore. adesso fa il montatore di stand, quando c'è lavoro lo chiamano. gli piace raistoria, e anche lui guarda res gestae la mattina, come me. sono tornato a trovarlo, dopo che mi hanno dimesso, ma non c'era più. mi aveva detto che berlino è bellissima.

quando sei malato pensi a tante cose, hai tanto tempo a disposizione, il tempo in ospedale non è come fuori. in ospedale il tempo ha più senso. alle sei di solito sei sveglio, al più tardi alle sette. ti fanno il prelievo, ti danno le medicine. alle otto la colazione. alla nove c'è il medico che fa il giro. alle 12 il pranzo. alle 15 giro delle terapie. dalle 17 alle 18 orario di visita. alle 18 la cena. alle 19 terapie, poi si spegne la luce. la notte è lunga. sai di vivere una vita eterodiretta, ed è onesto. la vita di fuori, con la sua illusione di libertà, ti appare uno scherno.
devo confessarlo: la vita così palesemente eterodiretta è molto più bella, appagante.

mentre penso a tutte queste mirabili cose, mi viene l'

idea per un corto
un uomo obeso cammina sul marciapiede, verso casa. improvvisamente si accorge che, da un giorno all'altro, sulla via, hanno aperto una palestra, una di quelle palestre di esaltati dove i clienti, in bella mostra, vengono vessati dal trainer attraverso esercizi massacranti e senza senso. l'obeso si piazza davanti alla vetrina e resta lì a guardare. anche gli esaltati guardano lui, pur continuando a faticare. campi, controcampi (crampi, controcrampi?), sospensioni alla sofia coppola, o, se preferisco, alla bela tarr. dopo troppi minuti l'obeso si rimette in cammino e arriva a casa. si siede sul divano e accende la tv. vede gli stessi esaltati che continuano a sudare. primo piano dell'obeso. titoli di coda. (decidere se sia più opportuno che l'obeso, mentre guarda ciò che accade dentro la palestra, mentre cammina e mentre guarda la tv, mangi lentamente qualcosa, come un gelato, un sandwich, un bounty)

ed è questo che mi ha sconvolto.
vedere, capire, sapere che ci sono persone che si prendono cura di altre persone. esseri umani che aiutano esseri umani. che salvano loro la vita. io non lo so se sarei sopravvissuto. certamente non 50 anni fa. molto probabilmente nemmeno adesso. ma adesso invece son qui che scrivo. mi hanno salvato la vita. mi hanno curato. sono venuti, tre volte al giorno, a darmi l'antibiotico, e le vitamine, e le medicine, e la puntura nella pancia, e l'aerosol. e tu non chiedi niente. vengono a cambiarti il pannolone sporco di merda, vengono a rifarti il letto, a imboccarti, vengono e ti chiedono come stai, come sta, sono lì per aiutarti, per farti respirare. e che cosa importa se lo fanno per lavoro?

salvarsi gli uni gli altri. è etico. ed è giusto. cosa chiedi al chirurgo che ti apre la pancia? se crede in dio? se vota la sinistra? no. lo guardi negli occhi e speri che ti guarisca. la cosa che conta è che ci sia qualcuno che a una certa ora viene da te e ti dà una medicina. a volte ti fa anche una carezza, o un sorriso, ed è bello.
ci sono persone, al mondo, migliaia, centinaia di migliaia di persone che salvano la vita di altre persone. e questa è l'unica cosa che conta.

il resto sono chiacchiere.


due

camminare in una corsia d'ospedale, in piena notte. ascoltare i rumori. la tosse. il lamento. il catarro. il russare. la macchina per l'ossigeno, che gorgoglia senza sosta. uomini e donne che fanno fatica a respirare.
alzarsi e camminare, tornare a letto, litigare coi cuscini, mettercela tutta, non dormire. alla malora il tavor, cosa l'ho preso a fare, erano meglio le gocce che mi davano quando ero in gastro, non mi ricordo più come si chiamavano, sonnnellin, dormiglion, non mi ricordo.
ho i brividi. quando non ho i brividi, ho il terrore dei brividi. ho il terrore che ritorni la febbre. se torna la febbre vuol dire che non sto guarendo, come ha detto il primario. il primario vuole essere simpatico, ma non è cosa sua, purtroppo. dopo qualche giorno e qualche battuta fuori luogo non si presenta più.
ho pensato che sarei morto, poi ho pensato che invece no, anzi, sarei uscito fortificato dall'esperienza e avrei trovato il coraggio di cambiare vita, avrei smesso di fare il lavoro che faccio. bella espressione, cambiare vita. alla malora lo studio, le udienze, il tribunale, alla malora tutto. avrei finalmente preso il mano le redini del mio destino e avrei deciso, col mio primo vero conato di volontà, di fare quello che voglio fare, quello che so fare, quello per cui sono nato. quando pensavo che sarei potuto morire ero tranquillo, pensavo solo che mio padre avrebbe sofferto come un cane e che non avrebbe superato il trauma.
mi portano la bresaola, insistono perché mangi qualcosa. mi portano i dolci, ma non voglio nemmeno quelli. la mattina mi portano la gazzetta o il corriere. ma a me piace di più vivere completamente dentro qui. sono angosciato, chissà cosa sta succedendo in studio senza di me. non ho il coraggio di chiamare. mi arrivano tanti messaggi, tutti i giorni, anche da persone che non sento mai. sono contento. mi sembrano sinceri. le coperte, tutte su. brividi o non brividi. bello stare nel letto. aspettare. camminare in corridoio, camminare nella stanza della tv. sbirciare nelle altre stanze, chi c'è, come stanno, cosa succede, se la caveranno? sì, sì.
ancora la pastiglia per il catarro, ma io non ce l'ho! la prendo lo stesso, le prendo tutte, le ragazze sono la mia mamma, la mia mamma sa cosa è bene per me. solo una volta mi ribello, non voglio più la puntura nella pancia, non mi piace. mi accontentano. il saturimetro fa dei suoni, sempre quelli. ti si fissano nella testa, loro come altri suoni. il termometro è a volte quello classico, con la barra di mercurio rossa, a volte quello moderno, che ti appoggiano sulla fronte. in pronto soccorso hanno quello che si infila nell'orecchio e dà il risultato in un secondo. voglio un'altra coperta. ho freddo. non voglio vedere nessuno, voglio stare zitto e non vedere nessuno. voglio sentire i miei brividi percorrermi tutto, voglio sentire il dolore nel mio petto quando respiro, quando tossisco, quando digerisco. voglio solo i miei brividi, sono tutti miei, tutti. voglio il mio letto, i miei cuscini, le mie coperte e i miei coltelli infilati nelle scapole, nella testa, nel cuore, nel fegato e nei polmoni. poi un giorno la dottoressa mi dice oggi può andare a casa, e mi si riempiono gli occhi di lacrime.


tre

vi ho amato, vi ho amato tutte. vi ho amato come vi hanno amato tanti prima di me, vi ho amato quando venivate a darmi le medicine, quando mi cambiavate la farfalla, quando mi facevate il prelievo, quando mi attaccavate la flebo, quando mi misuravate la pressione e la saturazione, quando mi misuravate la febbre, quando mi facevate la puntura e anche quando mi preparavate l'aerosol. vi ho amato tutte e, sì, vi amerò per sempre, femmine senza nome, angeli azzurri, ancelle dell'amore laico, della pietà vera, della carità cieca.


quattro

la mia degenza, i miei esami, le mie terapie mi sono costate zero euro. cono costate zero euro a me, ma qualcuno le ha pagate. a nessuno ripugna pagare le tasse quando servono a garantire cure mediche per tutti. le poche tasse che ho pagato negli ultimi 40 anni (cioè dal mio precedente ricovero a oggi) avranno pagato qualche flebo. almeno spero.
ho pagato 66 euro per la tac cui mi sottoporrò il 19 marzo prossimo venturo. non ho mai pagato niente così volentieri.
a me piace vivere in un mondo in cui la sanità, come la scuola e la casa, sono garantite dallo Stato, cioè dalla Società. un mondo in cui ognuno deve organizzarsi per i cazzi suoi, altrimenti se si ammala muore come un cane, non mi sembra il migliore dei mondi possibili. questo bel discorso farà la fine che farà quando la sanità pubblica avrà finito i soldi e non sarà più in grado di funzionare, perché tutti faranno causa ai dottori e agli ospedali asserendo di essere stati curati male, gli avvocati saranno tutti contenti di farle, queste cause, e i giudici condanneranno tranquillamente ospedali e dottori perché "tanto sono assicurati", con la conseguenza che i dottori e gli ospedali non penseranno più tanto a curare i pazienti, quanto a salvarsi il culo, ciò che si chiama medicina difensiva, e inonderanno tutti i loro pazienti di esami e indagini, tanto per non saper né leggere né scrivere, e qualcuno pagherà per essi, qualcuno pagherà i premi delle assicurazioni, che nel frattempo aumenteranno, così aumenteranno anche le parcelle dei medici, degli avvocati, e qualcuno le pagherà. così, con i soldi che avrai portato a casa dalla tua brava causa, potrai pagarti le rate della tua nuova polizza assicurativa privata. fanculissimo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho conosciuto troppo tardi del ricovero, altrimenti sarei stato incluso nel novero delle persone preoccupate e attente. Leggere della tua esperienza di affidamento ad altrui cure e condivisione delle temporanee sofferenze apre scorci nuovi, specie su sensibilità sopite, di cui non spesso fai oggetto i post. E spero che questa gratitudine per aver ricevuto sia sempre fedele compagna delle tue riflessioni, anche al netto di rilievi negativi, come quelli finali. In fondo, poi, dentro a quel dare "istituzionalizzato" ci sono anche aspetti che vanno ben oltre la deontologia medica o infermieristica. Nessuno ti deve per forza sorrisi, sollecitudine, calore umano, modi gentili, considerazione, ed è bello che ci siano stati. Lo dico perché, se leggo questi post, voglio farli miei nella bellezza che portano. Così, penso che anche nel nostro lavoro ci siano molte possibilità di accompagnare le persone, rinfrancarle, curarne le sofferenze. E' diverso, ma proprio perché i bisogni sono meno immediati, la carità, come la chiami tu, si può fare più fine. Credo in un mondo di persone che condividono questa grandezza, oltre le contingenze più forti. Grazie per il tuo post.

Paolo

pim ha detto...

grazie a te.